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Breaking News: Sarà 3/4 posto, dopo aver regalato la gara di andata, nel ritorno ci abbiamo provato finchè ne abbiamo avuta, ma va meritatamente in finale il Veliero, che però non va al veliero

venerdì 13 marzo 2015

Sullo Sport, la competizione, il senso del merito e un minimo di Orgoglio

Un Campione dal Cuore Pulito



Ha fatto il giro di tutti i social network la foto scattata lo scorso 2 di dicembre nella località navarra di Burlada, che ritrae il podista venticinquenne Iván Fernández Anaya, di Vitoria-Gasteiz, capitale della provincia di Álava, nei Paesi Baschi, mentre, in dirittura d’arrivo alla XXI corsa campestre Hiru-Herri, Trofeo Regno di Navarra, dalla seconda posizione guida il keniota Abel Mutai, primo nei 3000 m siepi all’Olimpiade di Londra, che, convinto di aver passato il traguardo, ha rallentato il passo e sta già salutando da vincitore il pubblico. Un errore clamoroso, che permette a Iván di recuperare terreno.

«Per me era una corsa molto significativa perché l’avevo vinta l’anno precedente e con quella per la prima volta sono diventato campione a livello internazionale in una categoria assoluta», ricorda Iván. «Sapevo che quest’anno sarebbe stato complicato per la presenza di atleti di gran livello come Daniel Mateo, David Solís, Antonio Etxeberria, Eliseo Martín e soprattutto il gran favorito, la medaglia d’oro Abel Mutai. Personalmente avevo molti dubbi, nelle competizioni precedenti non avevo riscontrato sensazioni positive, però avevo molta voglia di provare di essere meglio di quanto dimostrato nelle settimane anteriori».

La gara comincia all’una del pomeriggio sotto una lieve pioggia, temperatura intorno ai sette gradi. Inizialmente per i primi cinque-seimila metri Iván corre assieme a un gruppo di otto persone, finché, a due giri dalla fine, Mutai impone un forte cambio di ritmo. Iván e Solís lo raggiungono, quindi Iván decide di tentare la sorte e aumentare ancora il ritmo. Mutai gli s’incolla a ruota: «in alcuni momenti riuscivo a dargli cinque metri ma era impossibile staccarlo».

Trascorrono così quattro chilometri, finché a duecentocinquanta metri Mutai fa un forcing e la distanza tra i due diventa incolmabile.

«È stato in pista, a cento metri dalla meta che è successo tutto. Ho visto che Mutai ha cominciato a frenare, si rivolgeva ai presenti. Quando sono ricomparso all’orizzonte, il pubblico gli gridava che non era finita, ma lui non capiva. Quando l’ho raggiunto gli ho messo una mano sulla schiena e gli ho detto che la linea era più avanti, ma non capiva nemmeno me, cosicché ho deciso di accompagnarlo al traguardo. Si era guadagnato la corsa fuori dalla pista, era lui l’unico vincitore».

Ti aspettavi che il tuo gesto oltrepassasse le barriere nazionali?

«La verità è che non ho mai immaginato che potesse giungere fin dove è arrivato. Non sapevo nemmeno che ci fossero delle telecamere a riprendere l’arrivo della corsa. Essendo un gesto “normale” non pensavo che avrebbe causato tanta agitazione nei media».

Hai poi parlato con Mutai?

«Dopo la gara siamo stati in giro una ventina di minuti assieme ma con il fatto che Abel non parla bene il castigliano e che né io né lui conosciamo molto l’inglese, è terminato tutto presto con un abbraccio».

Quando devi gareggiare contro atleti africani, ti capita mai di sentirti già spacciato alla partenza?

«Non proprio: so che hanno prestazioni superiori ma sono pur sempre battibili, hanno due gambe, due polmoni, un cuore come me. Cerco di motivarmi di più, questo sì. Ma penso sempre di potercela fare».

Se tu potessi tornare indietro nel tempo a quel 2 dicembre 2012, con il senno di poi, ripeteresti il tuo gesto o sorpasseresti il tuo avversario?

«Rifarei ciò che ho fatto. Ho sempre detto che lui è stato migliore di me in gara per cui non potevo beneficiare di un suo sbaglio o di una sua piccola distrazione: lui è stato superiore».

La tua reazione di lealtà sportiva di fronte all’errore dell’ avversario è pervasa dallo spirito del barone De Coubertin. Dovrebbe essere “normale”, per un vero sportivo, allora perché a tuo avviso ha suscitato tanto scalpore?

«Forse nell’epoca di crisi mondiale in cui stiamo vivendo tutti ci costruiamo una corazza e diventiamo più individualisti, guardando soltanto a noi stessi. Anche nei giornali leggiamo quotidianamente di frodi, truffe, inganni, etc.. quindi un atto di rettitudine e cameratismo rimane favorevolmente impresso negli occhi e nelle menti sature di negatività delle genti».

Anche il tuo allenatore ha apprezzato che lasciassi vincere Mutai?

«Sì e no. Mi ha detto che quando si calzano le scarpette lo si fa per vincere. E ha aggiunto che lui avrebbe tirato dritto al traguardo. Il fatto che l’abbia dichiarato pubblicamente gli fa onore, sarebbe più facile dire “sì, anch’io avrei fatto la stessa cosa”, ma lui non l’avrebbe fatta e lo rende onesto ammetterlo».

Hai scelto di praticare uno sport minore. Riesci ad avere soldi a sufficienza per poterti allenare serenamente?

«In effetti è una disciplina molto sacrificata ed è molto difficile oggi riuscire a viverci. Tra il 2008 e il 2013 la Federazione Spagnola ha ridotto i contributi di un 50-60%. Se non riusciamo a trovare altri sponsor, l’atletica è destinata a finire. Approfitto dello spazio sul vostro giornale per lanciare un grido di aiuto a favore di questo sport».

Cosa dà più soddisfazione: un alto gesto sportivo o il primo posto in una gara competitiva?

«I miei risultati stanno andando molto bene, ma lo sport non è solo denaro. Il podismo mi ha dato anche buoni amici e mi ha fatto conoscere buone persone».

Pensi che riuscirai ad arrivare alle Olimpiadi?

«Sì, credo che continuando a lavorare duramente come sto facendo avrò molte probabilità di correre a Rio de Janeiro nel 2016. Per questo mi sto allenando tutti i giorni, anche se al momento sono focalizzato su altri obiettivi che sono più vicini all’orizzonte».

E ai Giochi di Rio chi rappresenterai? La Spagna o i Paesi Baschi?

«Sono disposto a rappresentare entrambi: mi considero basco e spagnolo».

Il Premio Save the Dream 2013: hai viaggiato a Doha, sei stato premiato di fronte a cinquecento tra le personalità del mondo dello sport più importanti direttamente dalle mani dello sceicco Saoud Bin Abdulrahman Al-Thani, del Comitato Olimpico del Qatar, che su impulso qatarino ha istituito questo riconoscimento di integrità sportiva assieme al Centro Internazionale per la Sicurezza nello Sport e di cui è ambasciatore il nostro Alessandro Del Piero. È un sogno da archiviare nel cassetto o uno stimolo per andare sempre avanti?

«Più che un premio, Save the Dream è stata un’esperienza che porterò sempre con me ed è la storia che racconterò in futuro ai miei figli. Non è un mio premio: è un premio della mia Famiglia (l’ha scritto proprio con la maiuscola ndr), dei miei professori del collegio di San Prudencio di Vitoria; è, in definitiva, un premio che va a tutti coloro che mi hanno formato fino ad oggi».

Hai mai augurato qualcosa di cattivo ai tuoi avversari?

«Non penso nel male delle persone. C’è una frase che utilizzo molto che è “quello che non vuoi sia fatto a te, non farlo agli altri”».

Non c’è niente da fare, bisogna rassegnarsi. Dilaga la piaga delle scommesse e in tutto il mondo l’ombra del doping si allunga su gli sport professionistici, ma riescono ancora a nascere e crescere campioni dal cuore pulito. Almeno uno, di nome Iván Fernández Anaya. Che con la sua squadra Bikila ha conquistato da poco il terzo titolo di campioni d’Europa nella corsa campestre, battendo le GS Fiamme Gialle, date per favorite.

Un campione dal cuore pulito.

 - Fine -


Ognuno sceglie chi vuole essere, ogni giorno.

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